Marzo 1993 – Kevin Carter va in Sudan per documentare la guerra civile e la carestia che stanno devastando il Paese.
Scatta questa foto che farà il giro del mondo.
Nascono le prime polemiche sul ruolo del fotografo che, invece di agire, immortala gli istanti freddamente, che aspetta minuti o ore per scattare la foto di successo.
Nel 1994 questa fotografia vince il premio Pulitzer.
Carter la odia.…
Il 27 Luglio dello stesso anno, Carter si suicida all’età di 33 anni scrivendo di non poter più sopportare la depressione, le accuse e il ricordo degli omicidi, dei cadaveri e del dolore che aveva visto.
Ogni giorno scorriamo foto, assistiamo ad eventi, leggiamo notizie che sconvolgerebbero l’esistenza di chiunque.
Le viviamo col distacco di un turista che osserva l’accaduto, lo commenta e torna a casa alla vita di sempre.
A volte ci imbattiamo in prima persona in avvenimenti traumatizzanti che travolgono definitivamente la nostra quotidianità portandoci a lottare o a morire: situazioni che ci cambiano davvero.
Quasi mai riusciamo a toccare con mano ciò che ci circonda normalmente, capendo quale sia il nostro ruolo. Abbiamo paura di farlo, troppe scuse e troppa poca motivazione.
Carter aveva il compito di mostrare cosa stava accadendo in Sudan e i suoi scatti mossero e muovono le coscienze mondiali.
Si uccise perché gli attribuirono ruoli che non gli appartenevano, vi si addentrò e non li seppe gestire.
La vita presenta ad ognuno di noi esperienze più grandi di quello che siamo, puzzle giganti e pieni di pezzi.
Possiamo trovare mille plausibili scuse per non affrontarle, dicendoci troppo piccoli, ma per il ruolo che ci spetta in quell’avvenimento, per quello non ci sono scuse: siamo tutti abbastanza grandi da ricoprirne a pieno lo spazio, da riempire il tassello che ci appartiene.
Dovremmo solo iniziare a chiederci:
“Ma io, che ci faccio qui?”.