“Non c’è niente che ti rende più folle del vivere in una famiglia. O più felice. O più esasperato. O più… sicuro.”
Jim Butcher
Sono tornata in Australia da un mese. Sono ormai abituata ai cambiamenti improvvisi, allo stare da sola, all’affrontare avventure, esperienze, delusioni, lontano dal rifugio di camera mia e delle mie sicurezze.
Sono abituata a cercare ciò che unisce più che ciò che divide, al vedere in ogni singola persona che incontro il positivo di un amico, un fratello, un insegnante, un bambino, da cui ricevere e a cui donare anche se spesso, con molti di questi, non è scontato.
Sono abituata a piangere, arrabbiarmi, sedermi e ripartire con me stessa, perché la famiglia e gli amici di sempre ci sono, ma il potere di un abbraccio, di uno sguardo, di una chiamata perfetta non riesce a entrare a pieno nei pochi caratteri di un messaggio o nelle 10 ore di fuso orario.
Credo di essere forte e abituata a questa forza, eppure il giorno di Natale, al 28esimo piano di un grattacielo, circondata da sconosciuti e telefoni spenti, mi sono sentita la persona più debole del mondo.
Un lavoro stressante, la mancanza di persone di cui mi fido davvero, la lontananza di chi si prende cura di te, nessun regalo sotto l’alberello di plastica rosa né un grazie da parte di chi, il regalo da me l’ha avuto lo stesso.
Mi sono sentita sola, instabile e insicura.
Molti anni fa ho iniziato a far parte di un gruppo missionario seguito dagli Oblati di Maria Immacolata (MGC). Un insieme di persone che condividono l’amore e la passione per i poveri, per i giovani e per Dio. Ci chiamiamo famiglia oblata perché viviamo costruendo rapporti veri di unione, collaborazione, condivisione. Rapporti che vanno oltre l’amicizia o la situazione, proprio come in una famiglia.
Quasi all’improvviso, pochi giorni dopo, mi viene proposto di partecipare a un evento di giovani di questo stesso gruppo che esiste anche quaggiù, in Australia.
Non conoscevo nessuno né sapevo quale fosse la tematica generale né cosa avremmo fatto. Non sapevo se avrei perso il lavoro assentandomi all’improvviso per quattro giorni, se avrei avuto problemi coi miei coinquilini e col pagamento dell’affitto che cadeva in quel fine settimana, se avrei avuto abbastanza tempo per organizzarmi, ma ho detto di sì ugualmente, senza pensare. Mi sono fidata e affidata. Mi sono buttata, osando, in questa nuova avventura. Forse, osando, avrei perso l’equilibrio per un po’, ma non osando avrei perso e basta.
Il NOYE è l’incontro nazionale dei giovani australiani appartenenti alla famiglia oblata. Si è svolto a un paio di ore da Melbourne e vi hanno partecipato ragazzi di vari Stati, college e università australiane.
Non lasciare niente di intentato: una frase che è stata messa in pratica fin dal primo istante, cercando di cogliere in ogni attività programmata, nel tempo libero, in ogni momento di normale quotidianità, di sfruttare al massimo le piccole e grandi occasioni presenti.
“La sconfitta non è il peggior fallimento. Non aver tentato è il peggior fallimento.”
George Edward Woodberry
Così ci siamo immersi in questa sfida, a pieno. E ne siamo usciti vincitori.
Siamo partiti dall’analizzare che tipo di persone siamo, dal capire il carattere che abbiamo, ciò che prevale nel nostro modo di approcciarsi agli altri, al mondo, alle regole, alle scelte obbligate. Abbiamo categorizzato in modo standard quattro tipologie di persone attribuendogli dei colori, blu, giallo, viola, verde e abbiamo visto quanto siamo diversi. Eppure, in questi opposti, in questo arcobaleno di individui, ho visto un’omogeneità sbalorditiva nel tentare, sempre.
Abbiamo scherzato e siamo stati seri, urlato cantando e parlato nuotando, giocato con le patate e riflettuto al tavolo mangiando.
Ci siamo mossi per andare incontro all’altro e ci siamo fermati per andare incontro a noi stessi.
Abbiamo corso per vincere un gioco e fermato ogni parte del corpo per osservare chi ha vinto davvero lasciandosi uccidere su una croce.
Abbiamo ascoltato le riflessioni di chi si era preparato e abbiamo imparato da chi in una frase improvvisa ci ha insegnato molto.
Abbiamo conosciuto persone nuove e riconosciuto persone di sempre. Abbiamo riflettuto su cose nuove e riflettuto di nuovo su cose che ormai credevamo scontate, rendendole nuove, ancora una volta.
Il giorno prima di partire mi sono guardata intorno. Ho scrutato ogni singola persona presente non ho visto nasi storti, capelli sul viso, piedi piccoli o troppo grandi, gambe secche o pance grosse; non ho visto tristezza né euforia. Non ho visto problemi né perfezione.
Khalil Gibran diceva:
“La bellezza non è nel viso.
La bellezza è nella luce del cuore”.
In quella sala, con gli occhi rivolti a chi la riempiva, non sono riuscita a vedere niente di tutto ciò perché quella luce era troppo forte. Eravamo tutti troppo belli. E la bellezza, quella vera, è troppo potente per lasciarti scegliere cosa fare.
Non era la prima volta che partecipavo a un evento simile: negli ultimi anni, tante sono state le esperienze vissute col mio gruppo in Italia, importanti, significative, piene. Lo stesso stile, le stesse radici.
In questi quattro giorni, però, per la prima volta sono stata esclusivamente con persone provenienti dall’altro lato del mondo, parlanti un’altra lingua, appassionati a cibi diversi, abituati ad altre tradizioni, modi di ridere e stare insieme.
Eppure non me ne sono accorta.
Ho dovuto raccontarlo a me stessa e me ne sono stupita.
E allora ho capito che avevo sperimentato davvero la potenza di quello sguardo d’amore dove ogni diversità diventa ricchezza. Dove non ci sono ostacoli né barriere. Dove non c’è spazio per metterti in disparte perché intorno ci sono solo mani tese, di colori diversi, che ti accolgono allo stesso modo.
Ho vissuto per la prima volta il vero concetto di famiglia oblata, perché, come in una famiglia, possiamo avere età diverse, esperienze, passioni opposte, ma se in mezzo mettiamo l’amore, non c’è niente che ti faccia stare meglio che adagiarsi in questo mix.
“Non c’è niente che ti rende più folle del vivere in una famiglia. O più felice. O più esasperato. O più… sicuro.”
Jim Butcher
Oggi sono di nuovo quassù, al 28esimo piano del mio grattacielo australiano, ma la debolezza e l’insicurezza di pochi giorni fa non ci sono più.
Guardandomi intorno non è cambiato niente, ma sono svanite solitudine, instabilità, insicurezza.
Negli ultimi quattro giorni mi sono accorta che se mi sentivo sola è perché mi ero dimenticata che c’è Qualcuno che non ci abbandona mai, anche dall’altra parte del mondo, anche di notte o a casa malata.
Ho ritrovato stabilità perché ho riscoperto la forza dell’osare, che anche se ci fa perdere equilibrio per un po’ è solo per riposizionarci al punto giusto, aggrappati ai punti fissi che contano davvero.
Ho riacquisito sicurezza perché “non c’è niente di più sicuro del vivere in una famiglia”, e io, questa famiglia, ho avuto la fortuna di averla accanto.
Non lasciare niente di intentato.
La sfida è ora: ringraziando ogni singola persona incontrata in questi quattro giorni, con la voglia di continuare ciò per cui ci siamo allenati, perché non sia una parentesi, ma un trampolino e stimolando tutti coloro che non hanno mai avuto un esperienza simile, per ricordarci che spesso, quando speriamo che le cose cambino, ci dimentichiamo dell’enorme potere che abbiamo su di noi e su di esse. Che spesso basta cambiare il modo di guardarle. E che non dobbiamo aver paura di osare perché basta allungare la mano e ci sarà sempre qualcuno a sorreggerci accanto a noi.
“There is nothing that makes you crazier than living in a family. Or happier. Or more exasperated. Or more … safely.”
Jim Butcher
“Defeat is not the worst failure. Not trying is the worst failure.”George Edward Woodberry
“Beauty is not in the face.Beauty is in the light of the heart”.
“There is nothing that makes you crazier than living in a family. Or happier. Or more exasperated. Or more … safely”Jim Butcher
“Leave nothing undared”