Una piazza. Tante storie. Cracovia.

Questa è la piazza centrale del ghetto di Cracovia.
Ci sono stata poche settimane fa.
Una sola piazza cosparsa di tantissime cose diverse che mi hanno fatto pensare.

Quando i tedeschi occuparono la Polonia, obbligarono gli ebrei a vivere concentrati in un ghetto nel quartiere di Podgórze.
Vennero espulsi i polacchi che ci abitavano.
Fu scelta questa zona per motivi logistici: era poco distante da quella industriale dove molti ebrei sarebbero stati mandati a lavorare.
Tra le fabbriche in questione c’era anche quella di pentole di smalto di Schindler, diventata poi famosa grazie al film di Spielberg.

Il ghetto venne delimitato da un muro, costruito a forma di lapidi tombali ebraiche, per ricordare a chi vi era rinchiuso che ne sarebbe uscito solo da morto.

Le famiglie vivevano tutte insieme in appartamenti piccolissimi.
Molti edifici sono stati rinnovati anni dopo, ma ce n’è uno, brutto, grigio, ancora così come era allora.
Ho guardato quel palazzo e ho pensato a quelle famiglie così diverse, con abitudini, credenze, caratteri opposti, costrette a vivere in pochi metri quadri.
Le ho immaginate da un giorno all’altro dover riuscire a mettersi d’accordo per sopravvivere, dover decidere il figlio di quale delle due famiglie sarebbe stato prima davanti alla stufa, come andava cucinata la zuppa, come sopportare il marito di un’altra che ti russa accanto, come avere pazienza con una figlia non tua che urla continuamente, capire come convivere e sapere che non potrai più vivere.
Ogni giorno, in famiglia, viviamo momenti di scontro perchè bisognosi dei propri spazi, per i caratteri, l’età, le abitudini.
Quando conviviamo con qualcuno, che sia un amico, un fidanzato o uno sconosciuto durante gli studi, per quanto ci troviamo bene con quella persona, sentiamo sempre dentro la voglia di chiuderci ogni tanto in un’altra stanza.
Ho pensato a quanto riteniamo sia difficile stare a stretto contatto costante con qualcuno che amiamo, che ci conosce e che sa, spesso, come comportarsi con noi.
A quanto lo urliamo sempre lamentandoci.
E mi sono vergognata.

Poi ho guardato in fondo alla piazza: c’è un gabbiotto scuro da dove i tedeschi facevano la guardia e sparavano a chi si comportava in maniera sospetta.
Da una finestrella.
All’improvviso.
Me li sono immaginati lì dentro, due o tre, a fare squadra in questo gioco di sangue, divertendosi con fierezza, tra gli sguardi che si davano l’un l’altro per cercare conferma in quello che stavano facendo.
Per sparare con leggerezza.
Quante persone hanno ucciso per motivi che dicevano validi, ma che non lo erano al di fuori di quel casottino di cemento, al di fuori della loro mente.
Ho pensato a tutte quelle volte in cui spariamo anche noi alle spalle di qualcuno, parlando male, denigrando, allontanando, perchè non è come vogliamo noi, non la pensa allo stesso modo, non ha il fisico che ci piace, non ha un carattere che sopportiamo.
Per motivi che diciamo validi, ma che non lo sono al di fuori del casottino della nostra mente.
E mi sono vergognata.

Subito dopo mi sono girata dalla parte opposta e ho notato una farmacia sull’angolo
Era la farmacia All’Aquila, dove Tadeusz Pankiewicz, polacco, lavorava prima ancora dell’esistenza del ghetto.

Quando i tedeschi arrivarono a Cracovia gli proposero di amministrare un’altra farmacia, ma lui preferì rimanere all’interno del ghetto, e ci riuscì: convinse i soldati che la situazione igienica all’interno delle mura del quartiere era devastante e, per quanto la salute degli ebrei non interessasse a nessuno, se non fosse stata tenuta sotto controllo, si sarebbero ammalati anche loro, i tedeschi a stretto contatto.
Pankiewcz praticamente viveva all’interno della farmacia dove si era fatto sistemare un letto per fare i turni di notte. Nella sua farmacia vennero nascosti alcuni oggetti religiosi per non farli cadere nelle mani dei nazisti.
Iniziò a creare inoltre delle lozioni per avere i capelli biondi in modo che alcuni abitanti del ghetto sembrassero più giovani evitando così di essere giustiziati, in quanto inutili al lavoro.
Spesso cercava di nascondere un po’ di cibo sotto il bancone e di darlo a piccoli pezzi a chi andava in negozio.
In più, grazie al permesso che i suoi dipendenti ricevevano per rifornirsi di medicine, si era creato un canale di comunicazione con l’esterno.
Ho immaginato quest’uomo rinunciare alla sua casa tra gli amici polacchi in un altro quartiere di Cracovia per vivere arrangiato tra uno scaffale, una vetrina e alcune medicine.
L’ho immaginato decidere di rinunciare a tanto per dare il poco che poteva a chi ne aveva bisogno, a chi quel poco avrebbe cambiato la vita.
E ho pensato a tutte quelle volte in cui abbiamo la possibilità di aiutare qualcuno con ciò che abbiamo, con la nostra posizione in quel momento, con le nostre conoscenze, con quello che siamo.
Sull’autobus, per strada, a casa, a lavoro.
E a quanto spesso non lo facciamo, per fatica, per mancanza di attenzione, per la poca voglia di rinunciare a una piccolezza che per qualcuno potrebbe essere invece qualcosa di grande.
E mi sono vergognata.

Infine ho osservato le sedie al centro di questa piazza: è un monumento fatto da un artista che, arrivato nel ghetto, ha notato un ammasso di mobili lasciati lì dagli ebrei dopo il loro sterminio.
Un ammasso di oggetti che aspettano un proprietario che torni a prenderli e che non arriverà mai più.
E ho pensato a tutte le occasioni perse, a tutte le volte che avremmo potuto fare o non fare qualcosa.
Occasioni che non arriveranno mai più.
Il vuoto che quel monumento rappresenta è qualcosa di enorme, di difficile anche da immaginare e di assurdo da provare a ricordare, ma esistono tanti vuoti più piccoli che lasciamo ogni giorno nella strada che attraversiamo, nelle persone che incontriamo, nella casa in cui abitiamo.
Su quelle sedie non ci dovremmo sedere per rispetto.
Su quelle di tutti i giorni invece, dove restiamo adagiati così a lungo, non ci dovremmo sedere più, almeno per un po’.

Pubblicato da chiaracuminatto

Mi chiamo Chiara Cuminatto e sono nata il 03/04/1989. Vivo a Campi Bisenzio a tratti perché viaggio molto e la mia vita imprevedibile non lascia spazio alla monotonia. Mi sono laureata in Lettere Moderne all'Università di Firenze nel 2011 e specializzata in Scienze Linguistiche all'Università di Bologna nell'Ottobre 2013. Ho cambiato diversi lavori a causa delle poche possibilità avute in ambito umanistico e linguistico, ma non smetto di credere nella bellezza delle sfide e nel potere di chi vuole qualcosa. Faccio parte di un gruppo missionario da ormai molti anni e la collaborazione tra le persone, la ricchezza delle diversità e l'aiuto fraterno fanno parte di me come stile di vita radicato a fondo. --------------------------------------------------------------------------------------------------- My name is Chiara Cuminatto and I was born on 04.03.1989. I live in Campi Bisenzio at times because I travel a lot and my unpredictable life leaves no room for monotony. I graduated in Modern Literature at the University of Florence in 2011 and specialized in Linguistic Sciences at the University of Bologna in October 2013. I changed several jobs because of the few possibilities had in the humanities and linguistics, but I do not stop believing in Beauty of the challenges and the power of those who want something. I am part of a missionary group for many years now and collaboration between people, the richness of diversity and the fraternal help are part of me as a lifestyle rooted deeply.

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