Ai confini dell’uguaglianza. Il sesto senso di Mika. – On the boundary of equality. The sixth sense of Mika

AI CONFINI DELL’UGUAGLIANZA

IL SESTO SENSO DI MIKA

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Ho conosciuto Mika tra le pareti marroni di un ostello. Ho visto i suoi occhi blu e i capelli biondi. Stava facendo colazione con un cucchiaio arancione e una tazza bianca con dei piccoli tondi celesti, osservava una grossa scatola rossa piena di cereali posata su un lungo tavolo grigio. I colori mettono allegria. Mi guardò e sorrise. Io lo guardai e sorrisi. Poi me ne andai in fretta. Dicono che i sordi sentano suoni che non esistono. Nella stanza regnava un silenzio potente. Io non dissi niente, non feci rumori né mostrai alcun tipo di emozione davanti a lui, ma credo che in quel momento, quel ragazzo sordomuto, sentì l’agitazione del mio respiro, la velocità dei miei passi che salivano le scale, l’imbarazzo delle domande che feci a me stessa, il frastuono dei dubbi che si attaccano puntualmente alle novità. Mi resi conto che lui, non sentendo, udì qualcosa di più reale di tutti coloro che intorno non si accorsero di niente.
Ero corsa via.
La fatica durata in quello scatto improvviso era direttamente proporzionale a quel più grande sforzo faticoso che sta nell’accogliere una diversità. Perché per quanto possiamo essere buoni, accoglienti, altruisti, per quanto vogliamo amare tutti, fuggiamo istintivamente da ciò che ci costa energie inaspettate e più qualcosa si allontana da ciò che siamo, più diventa difficile andarvi incontro contenti.
Con chi è simile a noi non abbiamo bisogno di fare sforzi: stare insieme diventa automaticamente una condivisione di ciò che ci piace fare. Uscire, fare lo stesso sport, condividere una passione, scegliere lo stesso film, ridere per le stesse cose.
Ma la diversità è fatica: decidere di andare in un locale quando vorresti stare scalza a ballare in una stanza, giocare a calcio con amici impazziti mentre l’unico sport che ami è la pallavolo, andare a fare shopping invece che suonare, guardare un cartone animato perché chi è con te ha paura dei thriller che tanto ami, sforzarsi di capire una battuta che non trovi divertente.
Ci allontaniamo così da chi non ci assomiglia, ma dimentichiamo che le energie spese per stare con qualcuno sono inversamente proporzionali a quelle usate per imparare qualcosa di nuovo: più le persone ci assomigliano, più è difficile scovare qualcosa da apprendere da esse, più invece si distanziano da noi per quello che sono e più è semplice e immediato cogliere qualcosa di inaspettato da rendere nostro.
Se ci ricordassimo di questo forse impareremmo di più e ignoreremmo di meno.

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Mika non può parlare e non può sentire. Stare accanto a lui vuol dire smettere di mangiare mentre stai cenando per alzarti, andare a sedergli accanto e scrivere su un foglio ciò che vorresti dire. Vuol dire sentirsi a disagio se inizi a ballare contenta sul ritmo di una canzone che lui non può ascoltare. Vuol dire smettere di ridere per le battute di chi è lì con voi per spiegargli con un messaggio cosa stanno dicendo di divertente.
Bernadette diceva: “Chi ama non prova fatica o ama quella fatica”.

Non ho mai negato di provare fatica nel voler bene a qualcuno. La diversità stanca, ma ho amato quello sforzo e lo amo tutt’ora.
Mika nasce in Finlandia 29 anni fa senza poter parlare e sentire e all’età di 5 anni gli viene diagnosticata la sindrome di Usher che lo porta a perdere l’uso della vista in modo graduale.
Quando ci siamo conosciuti lavoravamo entrambi nelle fattorie raccogliendo limoni e mandarini. In Australia per noi ragazzi che veniamo a vivere un’esperienza di viaggio e lavoro, le opportunità sono tante ma diverse da quelle possibili nel proprio Paese. Le posizioni richieste appartengono solitamente al mondo dell’ospitalità o a quello delle campagne. Questa limitazione porta sicuramente chi comunica in modo diverso dagli altri a non poter valutare come plausibili la maggior parte delle possibilità.
Mika mi ha insegnato le basi del linguaggio dei segni, mi ha fatto capire come vivere la vita in un silenzio che dice tutto, ma soprattutto mi ha ricordato che troppo spesso pensiamo a ciò che ci manca e non possiamo avere, rovinando così tutto ciò che abbiamo.
Non abbiamo le energie necessarie per concentrarsi su tutto, quindi l’assenza di mezzi per fare qualcosa è in realtà un elemento positivo perché ci permette di scegliere con maggior semplicità ciò che fa parte di noi. I nostri limiti non devono frenare o rattristare, ma delimitare ciò che siamo e renderci unici nel nostro campo. Ed è in un campo che Mika me l’ha ricordato. Ed è ad un campo recintato e chiuso che paragono ciò che siamo. Ci appoggiamo alla staccionata insoddisfatti osservando tutto ciò che sta al di fuori di essa, ciò che non appartiene a noi. Lui avrebbe avuto ogni giustificazione possibile per comportarsi così, ma non lo ha fatto. Respinto da ristoranti e bar, rifiutato da alcune farm per l’impossibilità di sentire il rumore di trattori e macchinari, ha deciso di voltarsi, di appoggiarsi a quel recinto che definisce la sua identità e osservare ciò che gli appartiene. Così ha preso la sua sordità e l’ha trasformata in una concentrazione senza distrazioni, ha guardato il suo non poter parlare e ha fatto sì che diventasse la sua costanza nel lavoro dove tutti interrompevano il ritmo di raccolta con parole, domande e canzoni.
È diventato uno dei picker migliori pur non essendo veloce. È diventato uno degli oratori migliori pur non potendo parlare. È diventato uno dei migliori confidenti pur non potendo ascoltare alcun suono. È diventato un esempio perché mi ha insegnato nuovamente a focalizzare l’essenziale senza perdersi guardando il giardino del vicino. Mi ha ricordato che anche quando intorno nessuno parla la tua lingua, esiste un linguaggio che sa comunicare con la stessa potenza di un grande discorso.
Siamo diversi. Tutti quanti. E Mika mi ha fatto pensare ancora una volta a quanto la distanza che divide due persone diverse non sia una lontananza da eliminare o fuggire, ma un percorso da attraversare gustandone a pieno i tanti colori e le tante sfumature, per tornare nel proprio campo con la voglia di curarlo e arricchirlo mutando la staccionata da limite che soffoca a stimolo a fermarsi, appoggiarvisi e apprezzare tutto ciò che abbiamo.
Ho visto nell’assenza di un senso di percezione, la presenza di un sesto senso, il senso di responsabilità e ho capito che l’handicap maggiore in realtà appartiene a me.

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ON THE BOUNDARY OF EQUALITY. 
THE SIXTH SENSE OF MIKA.

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I met Mika among the brown walls of a hostel. I saw his blue eyes and blonde hair. He was eating breakfast with an orange spoon and a white cup with small light blue rings, looking at a big red box of cereal placed on a long grey table. The colours bring joy. He looked at me and smiled. I looked at him and smiled. Then I left in a hurry. Someone says that the deaf people hear sounds that do not exist. A powerful silence reigned inside the room. I said nothing, I made no noise or showed any kind of emotion in front of him, but I think at that moment, that deaf-mute boy, felt the shaking of my breathing, the speed of my footsteps coming up the stairs, spoiled of the questions that I made to myself, the din of the doubts that stick punctually to the news. I realized that he who can not hear, he heard something more real than all those around who did not notice anything.

I was running away.
The duration fatigue in that sudden shooting was directly proportional to that greatest exhausting effort that is in accepting diversity. Because as long as we can be good, welcoming, selfless, as we want to love everyone, we flee instinctively what it costs us some unexpected energies and more something move away from what we are, more difficult is to encounter happy to go there.
With those who are similar to us we do not need to make efforts: to be together automatically become a share of what we like to do. Go out, do the same sports, share a passion, choose the same movie, laugh for the same things.

But diversity is hard work: decide to go to a club when you want to be barefoot dancing in a room, playing football with crazy friends while the only sport you love is volleyball, go shopping instead of painting, watching a cartoon because who is with you is afraid of thrillers that you love so much, strive to understand a joke that you do not find funny.
So we move away from those who do not like us, but we forget that the energy spent to be with someone they are inversely proportional to those used to learn something new: more the people are similar to us, more is difficult to find something to learn from them, and more instead is the distance from themselves to us for what they are, easier and more immediate is to grasp something unexpected to give to ourselves.
If we remembered this perhaps would learn more, and we would ignore less.

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Mika can not speak nor hear. To stay next to him means stop eating while you’re having dinner to stand up, go to sit near him and write down what you want to say. It means to feel uncomfortable if you start dancing happy on the rhythm of a song that he can not listen. It means stop laughing at the jokes of who is there with you and explain what is funny with a little message.

Bernadette said: “Who loves does not have to exert effort or love the effort that is given.”
I never denied the effort to love someone. The diversity tyre, but I loved that effort and I still love it.
Mika was born in Finland 29 years ago without being able to speak and hear, and at age 5 he was diagnosed with Usher syndrome, which leads him to lose his eyesight gradually.
When we first met we were both working on farms picking lemons and mandarines. In Australia for us guys who come to live a travel experience and work, the are a lot of opportunities, but not the same possible of our country.

The positions usually required here are jobs in hospitality and in the farms. This limitation leads surely those who communicate differently from the others not to be able to assess how plausible most of the opportunities.

Mika taught me the basics of sign language, made me realize how to live life in a silence that says it all, but especially reminded me that too often we think of what we are missing and we can not have, thus ruining everything we have.
We do not have the energy to focus on the whole, so the absence of means to do something is actually a good thing because it allows us to choose with greater simplicity that part that is for us. Our limits are not to brakes or the grief, but to define what we are and make us unique in our field. And it is in a field that Mika reminded me. In a fenced and locked area that I compare what we are. We lean to the unmet fence observing everything that is outside of it, what it does not belong to us. He would have had every possible justification for behaving well, but has not done so. Rejected by restaurants and bars, rejected by some farm for the inability to hear the noise of tractors and machineries, he decided to turn around, to lean on that fence that defines his identity and observe what belongs to him.

So he took his deafness and turned it into a concentration without distraction, looked at his not being able to speak and made it an his constancy in work where all interrupted the collection rhythm with words, questions and songs.

He had become one of the best picker although not fast. He had become one of the best speakers although he could not speak. He had become one of the best confidants although he can not hear any sound. He had become an example because he had taught me again to focus the essential without getting lost looking at the neighbor’s garden. He reminded me that even when no one is speaking your language, there is a language that knows how to communicate with the same power of a great speech.
We are different. Everyone. And Mika made me think once again how the distance that separates two different people is not a distance to eliminate or escape, but a path to cross fully relishing the many colors and many shades, to return to our camp with desire to cure it and enrich it to limit changing the fence choking to urge to stop, lean and appreciate all that we have.
I saw in the absence of a sense of perception, the presence of a sixth sense, the sense of responsibility and I realized that the biggest handicap actually belongs to me.
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Pubblicato da chiaracuminatto

Mi chiamo Chiara Cuminatto e sono nata il 03/04/1989. Vivo a Campi Bisenzio a tratti perché viaggio molto e la mia vita imprevedibile non lascia spazio alla monotonia. Mi sono laureata in Lettere Moderne all'Università di Firenze nel 2011 e specializzata in Scienze Linguistiche all'Università di Bologna nell'Ottobre 2013. Ho cambiato diversi lavori a causa delle poche possibilità avute in ambito umanistico e linguistico, ma non smetto di credere nella bellezza delle sfide e nel potere di chi vuole qualcosa. Faccio parte di un gruppo missionario da ormai molti anni e la collaborazione tra le persone, la ricchezza delle diversità e l'aiuto fraterno fanno parte di me come stile di vita radicato a fondo. --------------------------------------------------------------------------------------------------- My name is Chiara Cuminatto and I was born on 04.03.1989. I live in Campi Bisenzio at times because I travel a lot and my unpredictable life leaves no room for monotony. I graduated in Modern Literature at the University of Florence in 2011 and specialized in Linguistic Sciences at the University of Bologna in October 2013. I changed several jobs because of the few possibilities had in the humanities and linguistics, but I do not stop believing in Beauty of the challenges and the power of those who want something. I am part of a missionary group for many years now and collaboration between people, the richness of diversity and the fraternal help are part of me as a lifestyle rooted deeply.

Una risposta a “Ai confini dell’uguaglianza. Il sesto senso di Mika. – On the boundary of equality. The sixth sense of Mika”

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